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Domenico Caiazza

Il territorio alifano in età sannitica

(estratto da Gruppo Archeologico Rufrium, Il territorio alifano – archeologia, arte, storia convegno di studi S. Angelo d’Alife 26 aprile 1987, atti pubblicati nel 1990)

 

 

… (pp. 60-63)

 

le sopravvivenze folcloriche

 

Come è noto i culti antichi non sono testimoniati solo da resti materiali di templi, ex voto, iscrizioni, ma dalle sopravvivenze di vecchi rituali e credenze. A volte questi sono solo superficialmente adattati alla religione cristiana, a volte scadono a livello di pratiche magico-superstiziose, o folcloristiche.

Un culto precristiano e, probabilmente italico, degradato a pratica superstiziosa è appunto testimoniato nella nostra zona.

Fu rilevato in Ailano nel 1895 ed era collegato ad una fonte: la Fontana degli Zitielli (Fontana dei Bambini). Narra infatti Enrico Villani che

 

“Trovasi nel territorio detto Fragnitieglio, tra Ailano e Raviscanina tale fontana, ove fu lavato Gesù Bambino dalla Madonna (sic!).

Allorché i bambini sono stregati (gli tenno mmani le janare) si portano a lavare in questa fonte. La madre si reca da una donna che fa ‘professione’ di portare a quest’acqua i fanciulli, ed espostole la necessità ed il desiderio s’avviano insieme. I racconti di bambini stregati, portati alla fontana e guariti sono infiniti e vari; ma non vale la pena raccoglierli.

Alcune madri vi si recano col mago principale del paese; altre vi si recano con qualche persona di famiglia.

Giunti nei pressi della fontana ed inginocchiate recitano sette Salve Regina alla Madonna Addolorata, sette Pater, Sette Ave e sette Gloria a Gesù Bambino, che vi fu lavato per primo. Si lava poscia il fanciullo; e tagliate le unghie delle mani e dei piedi se ne legano i ritagli con pochi capelli, tre acini di fave ed alcuni pezzetti di pane in un pezzo di mussola o tela. L’involto si getta in acqua; e dall’affondare o galleggiare di esso si trae l’oroscopo della vita o della morte del bimbo: muore se affonda, vive se galleggia. Dato termine a questa operazione la madre, o la donna che la accompagna, preso il bambino in braccio passa per nove volte da una sponda all’altra della fonte, recitando queste parole: passo e strapasso e lu male re gliu figliu miu cca lu lasso (passo e ripasso, il male del mio bambino lo lascio qui). Al nono passaggio si trova con la faccia verso Ailano. Allora, senza voltarsi e con la massima sollecitudine, passato il bambino ed braccio destro, con la sinistra getta nella fonte un pezzo di pane seguitando sena mai ‘torcer lo sguardo dietro’.

I panni del bambino, tolti prima dell’immersione, restano sospesi a qualche cespuglio e fanno la fortuna, di padre in figlio, da una lunghissima serie d’anni, di un cenciaiolo di Raviscanina, il quale va a raccoglierli ogni otto giorni.

Al ritorno, pochi passi dalla fonte, dicono, comparisce immancabilmente un grosso serpente che, senza recare molestia scompare. Molti asseriscono di averlo visto anche nella più rigida stagione”[136].

 

Dal complesso rituale descritto, tolte le sovrastrutture cristiane (le preghiere, la leggenda del bagno di Gesù Bambino) appare evidente una efficacia lustrale e guaritrice della fonte, un residuo di sacrificio rituale simboleggiato dall’offerta della parte per il tutto: unghie e capelli[137]; l’offerta di cibo: le fave, sacre al mondo infero, ed il pane.

La fonte inoltre fornisce un responso di vita o di morte collegato all’affondare o meno del fagotto con capelli ed unghie, simboleggiante il bambino.

Vi è anche un tributo da lasciare dopo che il bimbo è stato purificato, offerto alle divinità infere e da queste restituito alla vita: gli abiti.

La valenza ctonia del culto è evidente sia per la presenza del serpente, sacro al mondo infero, come le stesse fave, sia per il divieto di guardare indietro andando via, che richiama il mito di Orfero ed Euridice. Nota il Pansa che “il precetto di non volgere il capo fa parte delle cerimonie lustrali, specialmente dei sacrifici offerti ai mani, cioè alle divinità inferiori e delle magie che hanno rapporto con gl’inferi”[138]. Nelle Lemurie il sacrificatore che gettava le fave, aversus nec respicit, umbra putatur collidere et nullo terga vidente segui [139].

La genesi del rito sembra la seguente: in origine il bimbo ammalato veniva spontaneamente offerto al mondo infero e da questo restituito alla vita o accettato. L’offerta dapprima doveva consistere nel gettare il bimbo nudo nella fonte ed il responso dipendeva dal galleggiare o meno dello stesso. In seguito più prudentemente ci si limitò a lavare il bambino, poi rivestendolo con nuovi abiti, come si conviene a chi rinasce alla vita, ed in sua vece si gettarono nella fonte le unghie ed i capelli[140].

La divinità che presiede al culto potrebbe essere Demetra-Cerere, data la menzione dell’Addolorata che è una Madonna in lutto per la perdita del figlio, come Demetra per la perdita di Proserpina. Demetra inoltre ebbe il potere di ottenere la restituzione dagli Inferi della figlia.

Segnaliamo ancora una possibile ulteriore traccia di un antico culto italico.

Testimonia R. Marrocco che fino ai primi del secolo in Piedimonte d’Alife “si portavano in giro per le vie i buoi destinati alla macellazione in occasione della Pasqua, due giorni innanzi tale ricorrenza. Gli animali menati in giro adorni del capo e nel collo di fiori e di nastri di seta multicolori servivano per farne ammirare le forze e la qualità”.

L’autore colpito dalla stranezza del costume e forse da una certa aura di sacro ad esso connesso cercava di spiegare l’usanza come derivata dalla “costumanza romana di menare in giro intorno all’ara gli animali destinati al sacrificio”[141].

Senza poter del tutto escludere tale spiegazione che trova confronto nelle rappresentazioni di bucrani con infulae, tuttavia appare anche possibile che l’uso traesse origine da un rituale peregrinatio sacra del bue, noto totem sannitico.

Infatti da un lato è stata notata la sostanziale assenza del toro divino, assunto dagli Italici a loro emblema anche sulle monete, dal contesto della religione di stato romana[142], (e anche nella tradizione giudaico-cristiana il culto del vitello è drasticamente condannato ed a Pasqua è prevista l’immolazione e la consumazione dell’agnello), dall’altro testimonianze analoghe sono conservate in area sabellica.

Il Pansa descrisse il rituale di Bacugno (Aquila) dove allorché “i preti convergono sulla porta della chiesa viene loro condotto dinanzi un grosso giovenco ornato di nastri policromi e di placche d’argento, il quale per essere durante l’anno addestrato a piegare le ginocchia si genuflette ai piedi dei sacerdoti”[143]. Ed il Cianfarani rilevò che in Loreto Aprutino nella festa di S. Zopito “il vecchio totem sannitico, il bue, era presente fino a questi ultimi anni alla processione di S. Zopito… e se della cerimonia non era protagonista c’è da ammettere che nella coscienza popolare non andasse più in là del secondo posto. Né è favola di novellatore verista l’auspicio di buona annata che esso era sollecitato a dare alle soglie della chiesa”[144].

Infine, sempre nella fascia pedemontana del Matese, ma in provincia di Isernia, a Monteroduni ancora sino a circa trenta anni or sono tra “i tanti festeggiamenti di S. Michele Arcangelo del giorno 8 maggio, un bove veniva preparato a festa, inghirlandato ed esposto all’abbeveratoio dove veniva ucciso per distribuirne poi la carne a tutto il paese”[145].

Né deve meravigliare l’analogia di credenze e rituali: nella Sabina, culla delle genti sannitiche, e tra i Sidicini di Teano, sciame sannitico, ancora in età imperiale residuavano comuni credenze superstiziose: in agro Sabino et Sidicino unctum flagare lapidem [146]

 

 

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[136] In R. U. Villani, La Terra cit., p. 161.

[137] J. G. Frazer, Il ramo d’oro, I, Boringhieri ed. 1987, p. 361 e ss.

[138] G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni d’Abruzzo, A. Forni ed. 1981 (rist.) parte II, p. 129.

[139] Ovidio, Fasti, V. 437 e ss.

[140] Cfr. J. G. Frazer, Il ramo cit. p. 364. Stiamo approfondendo lo studio di tale rituale di cui abbiamo trovato analoghe testimonianze nei territori di Venafro e Teano.

[141] R. Marrocco, Memorie cit., p. 316.

[142] Cfr. U. Bianchi, Gli dei delle stirpi italiche, Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, VII, 1978, p. 227.

[143] G. Pansa, Riti cit.. p. 110, e p. 131 per l’offerta rituale del totem.

[144] V. Cianfarani, Culture adriatiche antiche d’Abruzzo e di Molise, I, 1978, p. 109.

[145] G. De Giacomo, Monteroduni intorno al Mille, 1978, p. 56.

[146] Plinio, Naturalis Historia, II, 240.